Capitolo Quindicesimo: “Tristitia”

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 tristitia

divider48Lei si è staccata da anni dal resto del mondo – il mondo terreno – ma non credo vi sia nessun’altra persona, amica od amico, che io senta più viva, quando raccolgo il mio tempo e lo stringo per farne un tesoro di brillanti pensieri da godermi tutto da solo: Ed ecco che rivivo quel viaggio sul treno, lontano oramai, giacché chissà quanti altri viaggi avrò fatto a tutt’oggi, da quando l’incontrai là seduta, pensosa, o forse un po’ stanca, con il capo reclino, ma soltanto di poco, sulla spalla sinistra, mentre gli alberi e l’erba, le case e le sparute persone, il terreno grigio d’asfalto oppure sterrato, guizzavano via, attorno e sotto di lei, facendo della sua esile figura, rinchiusa in quello scompartimento deserto, l’unica, nitida, immagine che i miei occhi potessero scorgere. E fu proprio per questo motivo, credo, che io la guardai. La guardai e forse risi di lei: del suo sguardo un po’ mesto, del suo viso pallido pallido, e di quegli occhi un po’ spenti. La paragonai ad una statua di cera; ma dubito che esista cera bianca come il colore che vidi. Di certo, però, le sorrisi d’un sorriso donato senza nulla pretendere e, per questo, come un bel fiore, non colto da lei. Quanta fortuna, io ebbi, lo stesso, nello scoprire, qualche attimo dopo, che ella stava scendendo alla mia stessa stazione. Si alzò lentamente, poco prima di me che ancora, assorto, la stavo ammirando, sollevò le piccole spalle per avvolgersi meglio nel suo cappotto nero di panno, scosse con un sol colpo i capelli, belli, ma non troppo curati, e dietro di essi nascose il suo volto, come se avesse vergogna, ma non credo vergogna di me, giacché, ne sono sicuro, neanche s’accorse d’avermi di fronte. Non conosco le strane alchimie, oppure l’irrazionalità, dei comportamenti dell’uomo: non quelle degli altri, e neppure le mie, e quindi, nulla sapendo, stregato dalle illusioni che lei non mi diede, ma sicuramente affascinato da chissà quale vago mistero, volli fare dapprima come fa tanta gente: la più romantica e sognatrice, che perde lo sguardo nel cielo a contemplare i gabbiani o le rondini, fino a quando, poi, come cancellandosi, spariscono all’orizzonte, e la osservai allontanarsi lungo la strada; ma poco prima che lei svanisse del tutto, sentii di non volerla perdere magari per sempre, ed affrettando il mio passo, come fossi la sua ombra smarrita, in un giorno al calare del sole, la seguii silenzioso.

Come era leggero il suo passo! Faticavo a non raggiungerla, mentre il mio cuore batteva, non so per quale motivo, come quello di un giovane innamorato che rincorre l’amata per poterla abbracciare, e giungemmo ad un prato. Si sedette sull’erba, all’ombra d’un salice, ed io la spiai, attento e curioso, da una panchina, a pochi metri di distanza da lei.

La ragazza scriveva e cantava:

“Verdi prati celano alla nuda terra lacrime e sangue; foglie soffici curano le amare ferite d’un cuore che langue…

Rossa linfa di rosa, chiare stille di pianto: è questa la vita preziosa? È questa? Questa soltanto?

Rossa linfa di rosa, chiare stille di pianto: è questa la vita preziosa? Dolore? Dolore e rimpianto?

Cineree nubi annebbiano le assolate giornate di primavera; dorate, le stelle, mascherano ogni mestizia la sera.

Nel grigio, la mente riposa, e un ago d’oro ne cuce l’incanto: è dunque la vita preziosa tutta racchiusa in un canto?

Nel grigio la mente riposa, e un ago d’oro ne cuce l’incanto, è dunque la vita preziosa, una vaga illusione soltanto?”

E cantando piangeva: vedevo due rivoli sottili scivolare e cadere dalla sua testa chinata in avanti, ed inumidire il foglio che lei stringeva nella mano sinistra, scrivendo, con la destra, segreti sconosciuti a me ed al mondo, ma certamente, a sentire la sua malinconica filastrocca, non felici. Passai molto tempo, ad osservare la ragazza triste, là seduta sotto un salice piangente, in quel prato non molto distante dalla stazione, ed il guardarla mi portava alla mente le romantiche e malinconiche atmosfere dei racconti gotici che ho amato e che amo ancora oggi, poiché sanno affiancare così bene l’amore e la morte, come fossero l’una con l’altra legate da un filo inscindibile e divino, ed entrambe conseguenti e di uguale valore. Fu così che pensai di trovarmi dove un tempo sorgeva la maestosa casa degli Husher, così ben narrata da Poe nella novella che ne rammenta la rovina, o nella soave poesia dedicata al Palazzo Stregato, ove

“Chi passa, ora, per quella vallata, intravede, per le rossastre vetrate, irreali, immense forme muoversi al ritmo d’una dissonante melodia, e come un lugubre, rapido, fiume, per sempre dirompe dal cereo portale un’orrida folla che ride; ride, ma non sorride più”.

Fu così che i singhiozzi mi parvero un riso sguaiato, ed un fiume, le sue vitree lacrime. Una folla, il suo gracile corpo, ed una vallata quel prato, avvolto dal macabro canto; mentre un maniero, sembrava quel salice dai rami pendenti, fra i quali s’aprivano purpurei antri, e dietro di esso, scorsi una rupe, giù dalla quale lei si stava gettando, come un angelo nero che tornava nell’Abisso di fuoco. Fu un battere di ciglia; un breve istante di buio, poi tutto scomparve. L’aria frizzante mi carezzava le guance: il prato era un semplice prato, ed il salice era tornato ad essere un albero. Tutt’intorno aleggiava soltanto il silenzio… il silenzio in un verde campo deserto. Delicata, su di un fiore, accanto al luogo in cui vidi la ragazza, si posò una gentile farfalla; la raggiunsi e volli catturarla: le sue ali erano un foglietto sgualcito, piegato a metà. Lo dischiusi e vi lessi il mio nome.

Ne è passato di tempo, da quel giorno lontano, e certe notti addirittura la sogno, quella triste fanciulla, frequentemente, però, la penso e ricordo i suoi lunghi capelli scuri e un po’ mossi, il suo vago sorriso e quegli occhi celesti che, invece, non vidi sorridere mai, ma è nei pochi momenti in cui mi è distante dal cuore, o nelle mattine in cui, al risveglio, mi accorgo che non ha giaciuto al mio fianco, che ella m’appare per quella che è, ed io la chiamo per nome: Tristitia, perché solo in quegli attimi posso sorridere senza alcuna paura o timore di lei.

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“Tristitia-By Davide Vaccino” Pubblicato nel 2003;©Copyright2003

Ad Memoriam.

Davide Vaccino 08.09.1970-08.08.2011 Giornalista, scrittore, poeta… Amico.

“Nel ricordo non si muore Mai”

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Immagine : “Google”

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