Capitolo Quindicesimo: “Tristitia”

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 tristitia

divider48Lei si è staccata da anni dal resto del mondo – il mondo terreno – ma non credo vi sia nessun’altra persona, amica od amico, che io senta più viva, quando raccolgo il mio tempo e lo stringo per farne un tesoro di brillanti pensieri da godermi tutto da solo: Ed ecco che rivivo quel viaggio sul treno, lontano oramai, giacché chissà quanti altri viaggi avrò fatto a tutt’oggi, da quando l’incontrai là seduta, pensosa, o forse un po’ stanca, con il capo reclino, ma soltanto di poco, sulla spalla sinistra, mentre gli alberi e l’erba, le case e le sparute persone, il terreno grigio d’asfalto oppure sterrato, guizzavano via, attorno e sotto di lei, facendo della sua esile figura, rinchiusa in quello scompartimento deserto, l’unica, nitida, immagine che i miei occhi potessero scorgere. E fu proprio per questo motivo, credo, che io la guardai. La guardai e forse risi di lei: del suo sguardo un po’ mesto, del suo viso pallido pallido, e di quegli occhi un po’ spenti. La paragonai ad una statua di cera; ma dubito che esista cera bianca come il colore che vidi. Di certo, però, le sorrisi d’un sorriso donato senza nulla pretendere e, per questo, come un bel fiore, non colto da lei. Quanta fortuna, io ebbi, lo stesso, nello scoprire, qualche attimo dopo, che ella stava scendendo alla mia stessa stazione. Si alzò lentamente, poco prima di me che ancora, assorto, la stavo ammirando, sollevò le piccole spalle per avvolgersi meglio nel suo cappotto nero di panno, scosse con un sol colpo i capelli, belli, ma non troppo curati, e dietro di essi nascose il suo volto, come se avesse vergogna, ma non credo vergogna di me, giacché, ne sono sicuro, neanche s’accorse d’avermi di fronte. Non conosco le strane alchimie, oppure l’irrazionalità, dei comportamenti dell’uomo: non quelle degli altri, e neppure le mie, e quindi, nulla sapendo, stregato dalle illusioni che lei non mi diede, ma sicuramente affascinato da chissà quale vago mistero, volli fare dapprima come fa tanta gente: la più romantica e sognatrice, che perde lo sguardo nel cielo a contemplare i gabbiani o le rondini, fino a quando, poi, come cancellandosi, spariscono all’orizzonte, e la osservai allontanarsi lungo la strada; ma poco prima che lei svanisse del tutto, sentii di non volerla perdere magari per sempre, ed affrettando il mio passo, come fossi la sua ombra smarrita, in un giorno al calare del sole, la seguii silenzioso.

Come era leggero il suo passo! Faticavo a non raggiungerla, mentre il mio cuore batteva, non so per quale motivo, come quello di un giovane innamorato che rincorre l’amata per poterla abbracciare, e giungemmo ad un prato. Si sedette sull’erba, all’ombra d’un salice, ed io la spiai, attento e curioso, da una panchina, a pochi metri di distanza da lei.

La ragazza scriveva e cantava:

“Verdi prati celano alla nuda terra lacrime e sangue; foglie soffici curano le amare ferite d’un cuore che langue…

Rossa linfa di rosa, chiare stille di pianto: è questa la vita preziosa? È questa? Questa soltanto?

Rossa linfa di rosa, chiare stille di pianto: è questa la vita preziosa? Dolore? Dolore e rimpianto?

Cineree nubi annebbiano le assolate giornate di primavera; dorate, le stelle, mascherano ogni mestizia la sera.

Nel grigio, la mente riposa, e un ago d’oro ne cuce l’incanto: è dunque la vita preziosa tutta racchiusa in un canto?

Nel grigio la mente riposa, e un ago d’oro ne cuce l’incanto, è dunque la vita preziosa, una vaga illusione soltanto?”

E cantando piangeva: vedevo due rivoli sottili scivolare e cadere dalla sua testa chinata in avanti, ed inumidire il foglio che lei stringeva nella mano sinistra, scrivendo, con la destra, segreti sconosciuti a me ed al mondo, ma certamente, a sentire la sua malinconica filastrocca, non felici. Passai molto tempo, ad osservare la ragazza triste, là seduta sotto un salice piangente, in quel prato non molto distante dalla stazione, ed il guardarla mi portava alla mente le romantiche e malinconiche atmosfere dei racconti gotici che ho amato e che amo ancora oggi, poiché sanno affiancare così bene l’amore e la morte, come fossero l’una con l’altra legate da un filo inscindibile e divino, ed entrambe conseguenti e di uguale valore. Fu così che pensai di trovarmi dove un tempo sorgeva la maestosa casa degli Husher, così ben narrata da Poe nella novella che ne rammenta la rovina, o nella soave poesia dedicata al Palazzo Stregato, ove

“Chi passa, ora, per quella vallata, intravede, per le rossastre vetrate, irreali, immense forme muoversi al ritmo d’una dissonante melodia, e come un lugubre, rapido, fiume, per sempre dirompe dal cereo portale un’orrida folla che ride; ride, ma non sorride più”.

Fu così che i singhiozzi mi parvero un riso sguaiato, ed un fiume, le sue vitree lacrime. Una folla, il suo gracile corpo, ed una vallata quel prato, avvolto dal macabro canto; mentre un maniero, sembrava quel salice dai rami pendenti, fra i quali s’aprivano purpurei antri, e dietro di esso, scorsi una rupe, giù dalla quale lei si stava gettando, come un angelo nero che tornava nell’Abisso di fuoco. Fu un battere di ciglia; un breve istante di buio, poi tutto scomparve. L’aria frizzante mi carezzava le guance: il prato era un semplice prato, ed il salice era tornato ad essere un albero. Tutt’intorno aleggiava soltanto il silenzio… il silenzio in un verde campo deserto. Delicata, su di un fiore, accanto al luogo in cui vidi la ragazza, si posò una gentile farfalla; la raggiunsi e volli catturarla: le sue ali erano un foglietto sgualcito, piegato a metà. Lo dischiusi e vi lessi il mio nome.

Ne è passato di tempo, da quel giorno lontano, e certe notti addirittura la sogno, quella triste fanciulla, frequentemente, però, la penso e ricordo i suoi lunghi capelli scuri e un po’ mossi, il suo vago sorriso e quegli occhi celesti che, invece, non vidi sorridere mai, ma è nei pochi momenti in cui mi è distante dal cuore, o nelle mattine in cui, al risveglio, mi accorgo che non ha giaciuto al mio fianco, che ella m’appare per quella che è, ed io la chiamo per nome: Tristitia, perché solo in quegli attimi posso sorridere senza alcuna paura o timore di lei.

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“Tristitia-By Davide Vaccino” Pubblicato nel 2003;©Copyright2003

Ad Memoriam.

Davide Vaccino 08.09.1970-08.08.2011 Giornalista, scrittore, poeta… Amico.

“Nel ricordo non si muore Mai”

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Immagine : “Google”

Capitolo Quattordicesimo: “L’Inizio”

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l'inizio

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“Sogno un antico Re. Di ferro
è la corona e morto lo sguardo.
Non ci sono più di queste facce. La ferma spada
lo rispetterà, leale come il suo cane.
Non so se è di Northumbria o di Norvegia.
So che è del Nord. La folta e rossa
barba gli copre il petto. Non mi getta
uno sguardo, il suo sguardo cieco.
Da quale spento specchio, da quale nave
dei mari che furono la sua avventura,
sarà spuntato l’uomo grigio e grave
che m’impone la sua antichità e la sua amarezza?
So che mi sogna e che mi giudica, eretto.
Il giorno entra nella notte. Non se n’è andato”. Jorge Luis Borges

So che dentro a questo buio le porte, che contornano questo luogo, sono aperte; So che le finestre sono sprangate da sempre. L’odore acido di fumo di sigaretta impregna in sudario che mi avvolge. Non vedo; qualcosa, qualcuno mi ha bendato gli occhi. Vorrei prendermi in braccio, muovere queste braccia di gesso, lasciar gridare le mie corde vocali. Ci provo, tremo, mi acquieto e prego quel Dio che si è dimenticato di me. Maledetto. Sì, dev’essere che son morta mille anni fa. Cado, precipito in un incubo senza fine. Ed è dalla fine che ricordo l’inizio. Fotogrammi reali, nitidi e senza difetti. Eccomi con ali di falena sbattere nel riverbero dorato di quest’incubo senza fine, senza inizio. Eccomi; la testa sulle spalle le nuvole nel cielo, il gelo nelle ossa, un piede in una scarpa e un altro in un’altra; il disordine sulla scrivania, i gatti dentro casa e il profumo della pioggia sulla faccia. Il caldo opprimente è sparito con il primo temporale di settembre. Eccomi, ora resto immobile, come immobile è lo sguardo di chi mi segue da lontano. Il ricordo dell’inizio. Sono uscita a fare una passeggiata; amo camminare sotto la pioggia e amo il rumore dei tuoni che squarciano le nubi vestite di nero. Un colpo di vento, forte, mi butta per terra. Sento la faccia schiacciata nel fango; mezza faccia è sprofondata nel miscuglio puzzolente di fango e acqua. Ora piove forte e non so come mai non riesco a rialzarmi. Sicuramente un masso mi è rovinato addosso, facendomi cadere a terra. Il gusto ferroso del sangue mi cola tra le labbra. Mi sento soffocare. Non riesco a muovermi. Nessuna auto che passa, nessuno che mi soccorre. Eppure questa strada è trafficata, eppure qualcuno dovrebbe vedermi, così, stesa a terra nell’erba… colpita da un masso. Sento che mi sono ferita, ho sbattuto la faccia e la testa. Sanguino.

Buio.

Mi sento trascinare.

Mi hanno trovata. Che cosa mi succede ora?

Prendo coscienza delle cose con incredibile lentezza. Ho male dappertutto, come se qualcuno mi avesse pestato a sangue, eppure un attimo fa, qualcosa mi ha fatto cadere. Sono solo scivolata.
Si ricordo, un masso o il ramo di un albero, con il temporale mi è caduto addosso. Ma perché non riesco ad aprire gli occhi, perché mi fa male dappertutto. Non lo so.
Non capisco cosa mi stia capitando. Io non mi muovo, non urlo, sono senza voce. Un paio di mani forti mi gira all’insù. Uno schiaffo. E poi un altro. Sento una lama gelida tagliarmi la pelle delle braccia e la pelle delle cosce. Altre due mani, strappano l’abito leggero. Sento forte l’odore di sudore. La voce di un uomo. O di un ragazzo che si crede un uomo. Sta per succedere qualche cosa, lo sento. Respiro a fondo, ma non riesco a parlare, non riesco a dire nulla. Cerco di prendere fiato respirando velocemente una, due, tre volte…mille volte. Sento stringere i miei seni, sento che qualcuno mi graffia la pelle del ventre. Sento la pioggia battente e il rombo dei tuoni. Ora uno mi si appoggia davanti spalancandomi le gambe, mentre un altro si accuccia vicino alla mia testa. Sì, sta per succedere qualche cosa, lo so. Ho paura, piango e tremo, prego che sia un incubo. Quello che mi tiene da dietro, tende tutti i muscoli come a essere pronto a tenermi più ferma. Mi sento strappare le mutandine di cotone. Quello che mi tiene da dietro si sta eccitando, sento che si strofina contro la  testa. Ora quello che mi sta tra le gambe mi entra dentro. Mi viene da vomitare. Mi sento strappare la carne, lo sento dentro le viscere. E’ un dolore insopportabile. La verginità che conservavo per l’amore vero mi viene strappata ai bordi di una via, no so dove. Tento di muovermi; di scappare. Ma dove potrei mai fuggire?
“Ti piace puttana, ti muovi?; Dai troia, fammi godere. Fammi godere”.
M’immobilizzo di colpo, il cuore mi si sta spaccando dentro al petto. Uno schiaffo, un morso sulla spalla nuda. Una bestia mi sbrana. Non smette più di farmi male. Non smette più di prendermi.
“Mamma, mamma!”.
“Muoviti puttana fammi godere”. Sono di pietra, mentre lo schizzo di qualcosa di viscido mi colpisce la faccia.
“Mamma, mamma… Aiuto!”. Imploro in silenzio la morte. Il dolore non ha fine. I colpi sono ancora più decisi. Sento un gran male.
“Dai troia, fammi godere o ti ammazzo come una cagna, perché sei una cagna”.
Sento quello dietro di me colpirmi con qualcosa di duro. Il sangue mi cola su naso, sulla bocca. Tossisco. Ecco, credo di essere, allora, svenuta.

Non so quanto tempo sia passato. Non so quando sono morta. Ma ora sono sveglia.

“Dormi, piccola. Dormi. Non è arrivato il momento di svegliarti, devi dormire per far guarire le ferite. Ora sei al sicuro. Sono Victor e ora sei mia figlia. Dormi…”.

Un dolore acuto al braccio. Il sonno chimico.

Buio. Incubi.

Mi sento cullare.

Mi ha trovata. Che cosa mi succede ora?

Pace. Victor. Un padre.

Buio.

“L’inizio-By EmmaVittoria F. Dall’Armellina”©Copyright2011/2013

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Capitolo Tredicesimo: “Viola d’alba”

“In breve le sue vesti inzuppate dall’acqua interruppero l’incanto melodioso,
e trascinarono l’infelice in fondo alle acque, dov’è spirata.
Oimè! Annegata! Povera Ofelia vorrei raffrenare le lagrime. Muore per amore di Amleto”.
Shakespeare “Amleto”
Notte nera.
Nero dolore.
Nero Pulsare.
Victor. Il suo odore.
Viola d’alba.
Blu mare. Silenzio. Dondolio d’onde.
Sentivo il ghiaccio scorrermi nelle vene. Il dolore pulsava sordo in ogni parte del mio corpo. Il gelo si faceva largo dentro di me, fino a darmi la sensazione di farmi scoppiare le vene. Galleggiavo nell’acqua gelata e facevo fatica a respirare, ma non provavo nessuna paura. Giacevo mollemente in un letto d’acqua, come un’alga nel suo ambiente naturale. Tutto era normale, tutto sembrava facile. Tenevo gli occhi serrati, come ad attendere un momento speciale che la vista avrebbe rovinato. I pensieri volarono per un attimo a quando da piccola, nel giorno del mio compleanno, prima di spegnere le candeline, strizzavo gli occhi per esprimere i miei desideri di bimba. Occhi chiusi come avevo tenuto tante volte, quando abbandonata tra le braccia di Victor mi ero fatta cullare dalla limpidezza della sua voce, dal suo profumo, perdendomi e confondendomi al tutto, cogliendo in un solo attimo tutto ciò che di bello gli dei crearono. Attimi in cui c’inebriavamo d’amore, sino al sonno. Riuscivo ancora a sentire il battito del suo cuore, il profumo del suo corpo, della sua pelle, nella purezza che sopraffaceva ogni malvagità, che poi si era impossessata di lui. Victor divenne un crudele essere senza cuore. Ricordi, dolore, morte. Sapevo che il veleno di Victor scorreva dentro le vene e percepivo il senso amaro della consapevolezza che mi portava all’incapacità di reagire. La rabbia sorda e senza speranza, di chi è separato dalla propria felicità da una sottilissima eppure incolmabile distanza tra l’odio e amore, mi avrebbe dovuto far raccogliere quelle poche forze che mi rimanevano, ma era più facile non reagire. Il cuore mi faceva male; quale divinità abbietta e malvagia può permettere di gustare il paradiso destinandomi poi all’inferno? In quello strano dormiveglia mi lasciai cullare dai flutti. Scivolai nell’incoscienza della morte.
Le onde, misericordiose, la deposero dolcemente nella battigia della spiaggia deserta di Point St. Mathieu e le ore ricoprirono quel corpo esanime che pareva di alabastro. Il giorno, plumbeo e nebbioso, lo accolse vegliandola fino a quando qualcuno non la scorse da lontano.
Sembrava una bambola abbandonata in balia delle onde. Le accarezzò con leggerezza la gota, la sua pelle soffice somigliava a morbida spuma marina, ripulita dalla flebile brezza piovigginosa di quel giorno d’autunno. Era una bella donna, vestiva un abito dai colori cipriati e il sale marino, che si era asciugato, donava alla sua pelle un colore porcellanato. Lo sconosciuto scrutò velocemente il corpo seminudo e vide alcuni graffi, molte contusioni. Scostandola di lato, vide un bruttissimo taglio slabbrato che le segnava il torace, all’altezza del cuore. Sembrava morente. Respirava impercettibilmente e in modo agonico. I suoi capelli, incrostati di sabbia, avevano formato un morbido cuscino sul quale la sua testa riposava. Fissò i suoi occhi chiusi e si domandò cosa, e chi, avesse visto prima di chiuderli. Forse la stessa bestia che si era accanita contro di lei. La prese in braccio, poggiando dolcemente il capo sul suo petto, portandola come fa un padre con la figlia dormiente, e si diresse verso le antiche rovine dell’abbazia di St. Mathieu.

“Viola d’alba-By EmmaVittoria F. Dall’Armellina” ©Copyright2011

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Capitolo Dodicesimo: “Flashback”

Ricordi; come un caleidoscopio di sensazioni si affacciavano alla mia mente stanca, sfinita dalla lotta e dalla ricerca; il calore di una giornata di sole, sorrisi, amici e nemici, il rosso del sangue versato, il fuoco, la rabbia e la desolazione. I ricordi galoppavano, più veloci di quanto avessi corso, più svelti di quanto riuscissi a cacciarli dai pensieri.
Il grido di un falco nero mi scostò dai pensieri.
Ora dovevo solo svelarmi a lei.
” La notte ti apparirà accigliata e greve
e le stelle non più occhieggeranno
dai loro alti troni celesti, con luce
di vaghe speranze offerte ai mortali
ma le loro rosse sfere, prive d’ogni raggio,
al tuo languente occhio si mostreranno
come incendio e ardore
che per sempre t’investiranno”.
E.A.Poe
 Ero io stesso notte. Il folle, il fuggiasco immondo e maledetto, il battito fuori dal tempo oltre le epoche; il mistero di ciò che è causa e fine, armonia sofferta e nascosta che si sarebbe rivelata all’amore in un ritmo forsennato. Speranza e disperazione, coraggio e paura come opposti inconciliabili si sarebbero fusi in un assurdo temporale. Come nel giorno in cui mi fusi a lei. Unico testimone il sangue. Sangue, gocce a segnare un cammino, una continuità. Una goccia dopo l’altra; lente, lontane, come precise indicazioni, ostinate inseguitrici e compagne amorevoli, continue in un rivolo che non smetterà mai di scorrere.
Una ferita inflitta, una goccia si affaccia, scorre lungo il braccio seguendone le forme, spostandosi con il vento che cambia, tracciando un percorso diverso dal precedente e dal successivo; un arabesco disegnato dal destino, e che per caso, scivolando piano arrivano alla mano, le quali linee ne fanno da letto e guida. Una sottile scia scarlatta che scorre verso una frazione d’eterno, frantumandosi nell’oblio dell’ultimo salto nel vuoto.
Quel vuoto che, in un giorno d’autunno si riempì di lei. Lei che non aveva nome, ma di cui conoscevo il calore del corpo, l’ansa del suo ventre, il virgineo rossore del volto nel momento in cui le strappai l’imene, la pienezza dei suoi seni candidi, il ritmico incedere del suo respiro avvolto dal piacere. Di lei avevo preso tutto e in lei mi ero riversato come fiume in piena.  L’amai e la condannai. La uccisi e la lasciai andare.

“Flashback-By EmmaVittoria F. Dall’Armellina” ©Copyright2011

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Capitolo Undicesimo: “Apocalisse”

“Vidi poi un altro angelo, possente, discendere dal cielo.
Avvolto in una nube, la fronte cinta d’arcobaleno;
aveva la faccia come il sole e le gambe come colonne di fuoco.
Nella mano teneva un piccolo libro aperto.
Avendo posto il piede destro sul mare e il sinistro sulla terra,
gridò a gran voce come leone che ruggisce.
E quando ebbe gridato, i sette tuoni fecero udire la loro voce.
Dopo ché i sette tuoni ebbero fatto udire la loro voce,
io ero pronto a scrivere,
quando udii una voce dal cielo che mi disse: “Metti sotto sigillo quello che hanno detto i sette tuoni e non scriverlo”. Apocalisse 10-4
Ero arrivato al faro, seguendo il profumo dolciastro dell’amore, della morte e delle lacrime.
Sapevo quali erano le intenzioni di colei che ancora amavo. Corsi.
Mi fermai di colpo, riprendendo brevemente fiato. Potevo sentire l’aria fredda riempirmi i polmoni, ghiacciare il sudore, fermare il sangue e pizzicarmi la pelle con sottili e invisibili aculei. L’aria era stranamente fredda, quasi maligna; anche l’odore che saturava il cielo era empio e malvagio. Inspirai lentamente. La speranza dei miei sogni, avrebbe fatto i conti con la cruda realtà. Sentii un brivido corrermi lungo la schiena; non era il freddo e neanche la paura, ma qualcosa di più sottile e terribile. Una sorta di sgomento che si prova quando al risveglio dai nostri più bei sogni, ci si rende conto che la realtà li sconfigge, li distrugge, annichilendoli, per poi mostrarci sadicamente il nulla che siamo, e saremo.
Scrutavo il diurno sciogliersi dentro il nero della notte.
Il tempo sembrava essersi cristallizzato e tutto pareva immobile. Senza vita.
Nascosto dietro le rovine dell’antica cattedrale di Point Saint Mathieu, osservavo il profilo femmineo, adagiato sul terreno molliccio e umido.
Tutto intorno a quella figura etera, sembrava bruciato, ridotto a un deserto di terra e sabbia. Il terreno, sembrava esalare sofferenza, violenza e il grido del ripetuto stupro che gli era stato infitto nel corso dei secoli, facendolo diventare un luogo arido e sterile. L’odore salmastro diventava sempre più forte, quasi nauseabondo. Mi stringeva i polmoni, mozzandomi il fiato. Quel sentore malsano, mi faceva girare la testa insinuandosi prepotentemente dentro di me quasi a volermi portare fino alla follia.
Ricordavo gli errori commessi, ma ora, era tardi.
Eppure una flebile speranza rimaneva aggrappata dentro di me, prima che l’inferno che io stesso aveva svegliato, l’immane potere che avevo cercato e liberato rifluisse su di me, su di noi, dopo la breve quiete concessaci, come la risacca, messaggera dell’onda che verrà. Che tarda ad arrivare…
 Avrei dato a quell’angelo ciò che anelava. La morte. La fine. Il nulla.

“Apocalisse-By EmmaVittoria F. Dall’Armellina” ©Copyright2011

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Capitolo Decimo: ” Il Quinto angelo”

… e il quinto angelo suonò la tromba
Così va disegnandosi il giorno: Lo spettro lascia esistere crinali lontanissimi e in quella distanza è quel che basta ad abbracciare il mondo, questo giorno per noi tutti uguale. Fuori c’è il primo orizzonte.
E dalla Luna una lacrima cadde sulla terra al richiamo della Bestia. Una cometa passa nel cielo e porta via con se le lacrime.
Il cielo iniziò ad oscurarsi, nessun altro suono oltre i lamenti. Né un grillo, né un uccello, neanche il silenzio: Solo il nulla.

Folle il mio ricordo nel dondolio del mare, quando le sirene hanno un dolore da cullare. Quel silenzio che racconta del vento nascosto e delle stelle timide al tocco della luce e riflette qualcosa di più grande, che non conoscono: Quegli occhi accesi nel cuore e il sole ferisce nel sonno, forti e teneri, densi, leggeri e freddi, ma con un sogno sul viso, quasi un bacio!
Sento quella mano mentre, lontano, un gallo urla al sole la sua potenza e il profumo dell’erba schiaffeggia le mani.
Ho dato la mia voce, credendo di poter parlare con la sua; ho dato la mia anima illudendomi di poter vivere in eterno e ho sacrificato il mio mondo. Ma, al posto della voce, ho avuto il pianto e per colmare lo spazio lasciato vuoto dalla mia anima, ho trovato il dolore,… questo dolore.
Adesso scende la sera e la brezza del mare dà sollievo alle anime, ai miei piedi ed ai miei pensieri.

Preferirei perdere coscienza di me, perdere coscienza di ogni cosa, del mio dolore, del mio destino e giungere all’alba privo di sensi, privo di memoria per non rimpiangere niente, privo di sensibilità per non avvertire niente, privo di conoscenza per non vedere i suoi occhi.
Stordito sulla spiaggia di questo cuore, ho percepito il suono del vento, il palpito affannato delle onde ed un ricordo!
Questo ora è tutto quello che ho; questo è tutto quello che mi resta: Un riflesso nell’acqua … la mia anima e la mia mente smarrite, in un attimo passato in fretta, tra i miei capelli e le mani.

Non mi rifletto più nella schiuma del mare, ogni giorno ed ogni notte, tra queste stelle impazzite e senza tempo.
Non più.

…e il quinto angelo suonò la tromba.
E vidi una stella caduta dal cielo sulla terra;
e le fu data la chiave del pozzo dell’abisso.
Ed aprì il pozzo dell’abisso…
(Apocalisse 9, 1-2)

“Il quinto angelo-By Ninni Raimondi” ©Copyright2011

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Capitolo Nono: “Victor, l’intervista”

Victor: L’intervista
“Mi parli di questa storia. Io sono venuta qui per curiosità…”, disse la donna prendendo carta e penna.
Victor sospirò, si guardò intorno, poi prese la parola: “Sin dalla notte dei tempi il genere umano è sopravvissuto grazie al suo forte istinto di sopravvivenza. Talvolta mi chiedo come siamo riusciti ad arrivare sino ai giorni d’oggi senza essere schiavi di quello che ci circonda. Ma una cosa alla volta. Tempo fa, anzi secoli fa, durante i cosiddetti disordini religiosi, qualcuno si accorse che c’era qualcosa che non andava …
La donna lo guardava interessata, “prosegua per favore” disse vedendo che l’uomo stava prendendo fiato e riordinando le idee.
Si, dicevo che le cosidette leggende avevano preso un corpo. Il Problema è che, come in ogni storia, non c’è solo il personaggio buono, ma spesso, troppo spesso, tanti personaggi cattivi e mostruosi. Ecco io combatto quelli. Si proprio tutte quelle leggende che si trovano in un qualsiasi libro di folklore: Vampiri, Fate, Licantropi, Demoni e quanto altro di non umano giri su questa terra. Agli albori si usava molto più l’istinto. Oggi la tecnologia ci dà una mano, e nemmeno tanto piccola. Così la caccia a questi esseri da primitiva e istintiva è divenuta una azione scientifica e metodica…”.
La donna prese nuovamente la parola mentre scriveva appunti rapidamente sul taccuino, “Quindi sta dicendo che lì fuori, fin dalla notte dei tempi circolano esseri sovrannaturali? Immagino che siano tanto stupidi da non poter usare telefoni o cose del genere …” facendo per smorzare un pò l’enfasi dell’uomo.
Victor sorrise forzatamente e continuò: “Non proprio. Posso dire che anche questi esseri, con l’evolversi del tempo e della società, sono riusciti a confondersi perfettamente rendendo il mio lavoro e quello di altri come me praticamente impossibile. Il Progresso ha, come un enorme treno, investito in pieno una lotta antica come il mondo. Quindi se prima molti di noi sopravvivevano grazie alle innovazioni, ora possono cadere addirittura preda di mostri che sfruttino la tecnologia a loro vantaggio…”.
La donna scriveva con rapidità, incuriosita dalla voce e dalla storia dell’uomo che sembrava vera, l’uomo era veramente convinto di quello che stava dicendo. “E’ una storia incredibile, quasi da non credere. Vorrei chiedere, la gente cosa pensa di voi e della vostra missione di, ehm, cacciatore?”, cercando di animare la conversazione.
Beh, l’idea di fondo che si ha di un cacciatore è quella del sociopatico con tendenze schizzoidi. Non è così. Non chiedete mai a un Cacciatore perchè cerca una preda. La risposta che vi darà sarà sempre una ferita aperta nella sua anima. Io stesso ho iniziato a causa di un lutto importante. Talvolta molti, semplicemente, si ritrovano dentro una storia più grande di loro, un piccolo ingranaggio di un enorme meccanismo, il quale si muove e fa muovere tutti a loro volta”.
La donna era veramente incuriosita: “… e mi dica, cosa provate quando cacciate queste creature?
Victor la osservò “I sentimenti che si provano durante la caccia sono i più disparati: Odio, Rabbia, Adrenalina che ti scorre nel corpo, alcuni addirittura un perverso piacere. In tutti però c’è una cosa che li accomuna: la consapevolezza che non siamo soli, che c’è qualcosa oltre noi; qualcosa di infido e malvagio”.
Molto interessante, veramente molto interessante. Se posso chiederlo, come combattete queste creature?
Victor si guardò intorno mentre stringeva, tra le dita, una lettera ingiallita dal tempo e sorrise “Personalmente usando qualsiasi mezzo. Ciò non ci rende molto diversi da loro. Loro ci uccidono per sopravvivere, noi uccidiamo loro per sopravvivere. Insomma è la classica legge della natura. Vince il più forte. Fortunatamente fino ad oggi sono stato io il più forte …
La donna sorrise e accavallando le gambe affusolate disse: “Mi piacerebbe, tanto, saggiare le vostre capacità; vedervi all’oper …”.
Non terminò la frase che si ritrovò una pistola puntata alla testa. “Come le dicevo, fin’ora, il più forte sono stato io…”, sorrise Victor premendo il grilletto dell’arma. Il sangue imbrattò il tavolo e parte del muro. Osservò il corpo e chinandosi verso di lei, le prese da una tasca della borsa un paletto appuntito e accuratamente occultato dentro un foglio di giornale. Aprì la finestra, dall’ampia vetrata e lo lanciò il più lontano che poté, con un urlo disumano, quasi animale.
Poi, sorridendo, sussurrò: “Pour toi et pour notre amour, ma chérie! Sono sempre stato io il più forte …”, mentre trascinava il corpo della donna su per le scale …

“Victor, l’intervista-By Ninni Raimondi” ©Copyright2011

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Capitolo Ottavo: “Panta Rei”

Questa casa non è più come prima; ora i demoni girano tranquilli. Non sono piu al sicuro. Troppi posti da evitare. In queste condizioni difficilmente riuscirò a portare a termine il mio impegno. Ho bisogno d’aiuto, un aiuto che non arriva e un vecchio incubo che ritorna: Il Suo nome!
Panta rei
Ormai non riesco più a passare il tempo che vorrei in questo luogo.
Tutto scorre.
I volti, le azioni e le situazioni. Non so più da chi son circondato.
Anche i valori son persi. Solo lei mantiene la sua fedeltà. Me lo ha provato, là, in alto, tra le guglie e le gargolle e tra le torri di quel palazzo. Ormai il mio futuro è lei. L’unico viso che riesco ad intravedere chiaramente nella nebbia; questa nebbia circolare che soffoca e che libera da tutto.
Mi ha raggiunto un sussurro dal passato; una voce che non sentivo da tempo; un volto che avevo perso. Colei che mi fece un dono. L’unica che lo fece.
Per molto tempo la inseguii senza mai trovarla. Ma ora è tornata e so come trattenerla.
Non la perderò più, mai più!
Tu che mi hai donato la rosa non dovresti covare odio nel tuo cuore, ma speranza nell’eternità della nostra vita. Molte cose possono mutare!” , mi disse.
Guardo gli alberi verdi scossi dal vento freddo,
alti e grandi scendo verso quelle due figure che si abbracciano.
Il treno fermo, decine di persone che girano e camminano ed io
lì a confondermi tra quelle mentre i due si stringono.
Ho finito quel che avevo da fare,
lascio che le foglie al vento spezzino quel filo
tra i miei occhi e loro e mi volto,
allontanandomi,
mani in tasca.
Davanti a quelle scale mi fermo un istante mentre, il vento, alza la mia lunga giacca; penso alla mano destra sulla dolce schiena sottile; alla mia mano sinistra. Alle sue mani aggrappate, finalmente, ad un volto e sorrido di quel possibile sorriso, scendendo le scale e svanendo da quel nuovo sogno a cui non appartengo. Lunghe notti e strette vie che percorro per raggiungere la mia Signora. Sento le tenebre seguirmi come a voler mangiare la mia ombra, che mi perseguita, in un susseguirsi di passi, vicoli, svolte e paesaggi. Piccole lanterne appese fuori dalle taverne, che guardo e non osservo, senza mai fermarmi.
La luna segna la mia via, ormai. Strade, senza fine, mi portano da lei. Adesso seguo, anch’io, questa via. Quell’ultima fatale strada che conduce al portone del mio destino. Lei mi ha chiamato.
Questa notte.
E questa notte, finalmente, con essa, finirà il mio tormento, mentre son qui ad attendere che apra le tenebre e nella luce soffusa di una candela, mi conduca su per le grandi scale, da me viste solo nei sogni. Lei, la Signora dei sogni e dei miei incubi più reconditi, sta aspettando per prendermi con se ….
Lunghe notti ho atteso questa via indicata, al di fuori della mia vita eterna.
Lunghe notti ho atteso questo momento. Il momento in cui mi avrebbe portato via da questa vita terrena. Proprio come l’anima che verrà condotta lungo il supplizio della morte e salvata all’ultimo istante, per vedere l’inferno e il paradiso insieme; tutto in un solo attimo di piacere immenso che mi condurrà alla via della non vita, della non morte, del non più nulla. Non sento più dolore; non sento più passione, né rancore. Solo il desiderio che lei sia in eterno in questo connubio di disperazione e ardore nel mio povero cuore, protetta nel calore del sangue; dietro un sorriso sporco di rosso. Il rosso rubineo che fu colore, nel simbolo del “per sempre”, ultimo cimelio di questa mia vita trafugata dentro l’attimo in cui ella mi chiamerà a se.
“Offriti, calice ricco
d’ambrosia del sacrificio.
L’ossa e la polpa si scuotono
ancora al passaggio languido
del tuo ritmico affondare.
E colata densa e viscida
di lucido irrompe al basso:
così divien quell’amarti
stanco.
Così io ti sento esplodere
la pulsione già sopita”.
Victor

“Panta Rei-By Ninni Raimondi” ©Copyright2011 (Già pubblicato in data 19 Maggio 2007 AMRaimondi)

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Capitolo Settimo: “Pointe St. Mathieu”

Mi sentii scuotere leggermente.
“Madame, siamo arrivati a Point Saint Mathieu”. Mi disse con voce incolore il tassista.
Scesi da quella scatola di latta e lo liquidai con un gesto secco.
Mi guardai attorno.
Rimasi ipnotizzata dal panorama avvolto da minacciose nubi di tempesta, dalla fitta nebbia che avvolgeva l’abbazia abbandonata, ovattava le grida acute dei gabbiani. Ero attratta dalla magica verticalità della cruda falesia che si ergeva dalle acque profonde e irrequiete, nere come la pece. Sfaccettature di un magico non luogo, incorniciato da un faro e da antiche rovine di pietra scura. Ero ritornata nella prua di un piccolo mondo dimenticato e antico. L’unico bagliore, proveniva dal faro. Il suo occhieggiare pulsante e vivido, sembrava stanco, quasi si stesse arrendendo alla forza delle tenebre. M’incamminai verso il litorale, verso quella costa priva di luce bardata di silenzio; verso quell’oceano che urlava il suo lutto. Eravamo una di fronte all’altro, come due nemici.
Le onde ruggivano e la bocca spalancata degli abissi, schiumava di rabbia. L’aria salmastra mi bruciava gli occhi, il gusto salino riempiva la mia bocca quasi a volerla sigillare. Lasciai volare il cuore oltre le onde, molto più in alto delle rocce che si stagliavano contro il cielo come affilate lame. E nel soccombere senza morire, senza parlare fino a perdermi nel mare Atlantico,  decisi di lanciare la bottiglia in quel mare carnefice, che tutto mi aveva donato e che tutto mi aveva preso. Vinta, ma non perdente mi protesi verso quell’inferno d’acqua. Ottanta piedi mi dividevano da lui. Sarebbe stato un piccolo salto. Il vetro si sarebbe frantumato e il mare avrebbe avuto il suo sacrificio.
Qualcosa mi faceva esitare, qualcosa mi faceva retrocedere dal lanciare la bottiglia. E l’idea malsana di sacrificare anche me stessa, prese forma tra i pensieri. Ero partita da Parigi sicura e arrogante, con la certezza di cosa dovevo fare. Ora, non mi volevo dividere da ciò che mi ancorava al passato. Avrei rinnegato me stessa e tutto ciò che mi teneva legata a Victor. Sarebbe stato più semplice morire.
Mi lasciai scivolare sul terreno umido, ricordando una poesia di Bousquet. “La morte è la solitudine delle persone amate, questa nebbia intorno a loro che nessuna tenera parola può attraversare. La morte è il dolore e la disperazione nelle stesse parole che furono l’ebbrezza della felicità. La morte sono i pianti che sgorgano ascoltando una parola che voleva dire amore”.  
Piansi.

“Pointe St. Mathieu-By EmmaVittoria F. Dall’Armellina” ©Copyright2011

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Capitolo Sesto: “Logori ricordi”

Avevo raccolto il foglio logoro dal pavimento.
 “Adieu”.
 “Je t’aime”.
Arrotolai con cura la lettera con mani tremanti. Ricordai. Avevo scritto, cancellato, strappato fogli, riscritto. Nessuna frase, non una virgola era fluita dal mio animo in modo naturale. Ogni singolo maledetto carattere sembrava un macigno di dolore, traslato su di un fragile pezzo di carta. Parole vergate rabbiosamente, affilate dal dolore e dalla nostalgia di qualcosa che non conoscevo; o forse, non volevo ricordare.
Nascosta anche a me stessa, osservavo quel foglio candido.
La pregiata carta pergamena sottile e leggermente rugosa, aveva assorbito l’inchiostro nero dei miei pensieri, mischiandosi all’oscurità del luogo che mi ospitava. Vivevo da qualche tempo in una soffitta di pochi metri quadrati. Lasciai scorrere lo sguardo sulle pareti disadorne e mi soffermai a guardare il grande oblò di vetro, da cui proveniva l’unico segno di vita che c’era in quella stanza. Un sottile fascio luminoso, dalle sfumature indaco e rosa, filtrava trasversalmente dal lucernaio aperto, illuminando piccoli granelli di pulviscolo, che vorticavano per aria simili a impercettibili coriandoli bianchi. Leggeri e danzanti, li vedevo precipitare a terra, per poi scomparire nel nulla. Li osservai per un lungo frangente di tempo, tramutandomi in essi.
Sospirai, lasciandomi coinvolgere in quel lento valzer.
E mi sentii viva e leggera, come un granello di polvere che danza in un raggio di luce alabastrina.
Nella scarsa luminescenza della stanza arredata poveramente, spiccavano lisce superfici impolverate, scatole accatastate una sull’altra, vecchi mobili e centinaia di vecchi libri sparpagliati un pò ovunque. I giochi chiaroscuri rendevano più tenebrosi gli angoli bui, conferendo  argentei riflessi ai filamenti delle tante ragnatele che pendevano distratte dalle travi tarlate. Le osservai stupita, pensando che non ne avevo mai visto così tante tutte assieme.
Ora sapevo che cosa dovevo fare.  Sarei ritornata a vedere il mare, e avrei portato con me la lettera.
L’avrei infilata in una bottiglia, insieme al cerchio d’oro e diamanti che Victor mi aveva regalato nel giorno della mia nascita, o forse nel giorno della mia morte. La quiete asincrona divenne frenesia.
Nella penombra che si vestiva dei colori dell’alba, iniziai a rovistare alla ricerca di una bottiglia vuota. In fondo alla vecchia credenza ne trovai una piccola, di vetro trasparente con un tappo di sughero consumato.  Legai la lettera con un lungo nastro rosso e la infilai nella bottiglia. Mi sfilai dalle dita smagrite la vera di diamanti, la baciai e la feci scivolare all’interno della bottiglia. Lo scrigno di vetro sembrava perfetto, fatto apposta per accogliere i pensieri e i frammenti della mia esistenza appena passata.
Uscii nel mattino carico di pioggia. Direzione mare. Direzione Brest, in Bretagna.
“Faro di Punta S. Matteo”. Furono le prime e le ultime parole che dissi al tassista. Forse fu il mio tono, il mio aspetto, il mio volto pallido trincerato dietro i neri occhiali o le varie banconote da cinquanta euro,  lanciate sul sedile anteriore  a non far  replicare l’uomo. Mi lasciai avvolgere dal silenzio, rotto dal vago gracchiare della radio. Non ho ricordi del tragitto; penso di essermi addormentata nel taxi che mi portava a Point Saint Mathieu, sulle coste della Bretagna.
Sognai. Spezzoni in bianco e nero, fotogrammi fluttuanti di braccia e labbra, di mani che si ergevano da placide onde, immobili e rossastre. Le stesse onde che si chiudevano sopra di me. Un sussurro invocava il mio nome, facendomi  precipitare a fondo mentre l’acqua salata riempiva i miei polmoni. Mi abbandonai alla forza degli elementi e lasciai fuoriuscire l’ultima boccata d’ossigeno in quel ventre marino salato e denso.  Rividi Victor nell’ultimo salto verso il nulla.

“Logori ricordi-By EmmaVittoria F. Dall’Armellina” ©Copyright2011

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Capitolo Quinto: “La lettera”

“Je ne sais pas comment écrire une lettre.
Je n’ai jamais écrit. Pas moi, serait enseigner.
Paris est triste ce soir, et moi avec elle.”
“Non so come si scriva una lettera.
Non ne ho mai scritte. Non me lo insegnasti.
Questa sera Parigi è malinconica, ed io, con essa”.
 Mi abbraccio, cullandomi al suono ticchettante della pioggia. E’ un rumore lieve, metallico e sembra scandire il tempo, come un vecchio orologio a pendolo. Piove ininterrottamente da tre giorni. La pioggia è poca cosa rispetto alla nostalgia che mi attanaglia la gola e mi intorpidisce le mani, che a stento sorreggono la tua stilografica nera. I giorni scorrono sempre uguali, fotocopie sbiadite senza forma e senza colore. Trecento trentatré giorni senza di te. Quasi un anno, ma sembra ieri.
 ” … Vous êtes allé sur une froide journée de Décembre.
J’ai toujours aimé l’été.
J’ai toujours détesté l’hiver”.
Te ne sei andato in una fredda giornata di dicembre.
“Ho sempre amato l’estate.
Ho sempre odiato l’inverno”.
Conobbi con te il mare d’inverno. Nella stagione fredda, come in quella estiva, il mare è in grado di avere migliaia di tinte e infinite sfumature di colore. Ero abituata alla placida campagna, ai silenzi, ai colori violacei del fiordaliso. Poi, tu, mi hai fatto scoprire la vastità del mare. Le gradazioni bluastre e cangianti che si mischiavano ai colori sbiaditi di un cielo invernale. Blu, oro, verde, indaco; fluttuanti tonalità che variavano con il dondolio delle onde. Davanti a tanta immensità, m’insegnasti a divenire mare, ad amare. Amarti.
Imparai a diventare onda. Eravamo vicini. Mano nella mano. L’odore salmastro all’inizio sembrava l’afflato terrorifico di Nettuno, ma poi m’insegnasti a respirarlo, amandone il gusto che mi lasciava sulle labbra, sulla pelle e dentro agli occhi. “Lascia che il mare ti scopra, ti riconosca, ti scorra dentro…”. Era quello che mi sussurravi piano. Ed io seria, come una bimba a scuola, ti ascoltavo. E diligentemente mi avvicinavo alle piccole onde che lambivano la spiaggia spoglia, e lasciavo che l’acqua gelida mi accarezzasse i piedi. Faceva freddo, ma eravamo fianco a fianco e tutto scorreva su di noi, come piccole carezze, sinuose e liquide.
Ero convinta che agli esseri umani fosse concesso solo di scorrere vicini gli uni agli altri, ma distinti e separati, come due rette parallele che possono incontrarsi solo all’infinito. In tutto questo tempo, che a tratti sembra immobile, ho concluso che l’amore non era altro che impossibilità, nient’altro che l’irresistibile protendersi degli esseri umani verso un affascinante Nulla. Per quanto strano possa sembrarti, l’ho sempre creduto. Mi protesi verso quel nulla, che aveva le tue fattezze.
Arrivasti tu. Avevi le tasche piene silenzio e gli occhi pieni di buio.
Pioveva. Come questa sera.
Vivemmo l’intensità di un amore che non aveva uguali.
Vivemmo di piccoli passi, fatti a piedi scalzi. Scevri di un tempo che sembrava non appartenerci.  Venne poi la notte dell’eclissi.  Un oscuro bacio, l’abbraccio eterno. Il salto nell’abisso della non vita, della non morte. Il tormento di tutte le mie notti. Naufraghe di te, di noi.
Dissero che il mare ti aveva preso. E ti maledii.
Non viva, non morta.
Ascolterò la sete, la rabbia e l’odio.
Sarò onda che infrange dolenti anime. Sarò della notte l’ultimo singulto vitale. E di te avrò tutto, di me nulla.
“Oubliez votre nom. Vous serez au repos que les algues dans la mer, que vous aimiez tant. Ce que j’ai appris à aimer.
Cette mer est maintenant la haine calme.
La poussière à la poussière, chute de la goutte.
Adieu…”.
“Dimenticherò il tuo nome. Rimarrai come alga poggiata in fondo al mare, quello che amavi tanto. Quello che imparai ad amare.
Quel mare placido che ora odio.
Polvere alla polvere, goccia dentro goccia”.
 Adieu.

“La lettera-By EmmaVittoria F. Dall’Armellina” ©Copyright2011

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Capitolo Quarto: “Solitude”

Scale.
Scale e ancora scale.
C’è chi è abituato alla risalita dagli inferi e a scandire giornate con un tintinnare ritmico d’ossa sporche. C’è chi si  è assuefatto nel traslare l’anima dal corpo, per poi farla scivolare su pareti scrostate di pensieri fissi, profondi come abissi.
Ricordai il giorno prima, e la maledetta notte che ne era seguita.
L’hotel. Il lusso. Il sesso. La morte. Il sangue. La vita.
Attimi statici, immobili eppur estremamente ritmati danzavano nella mia mente, avvolta da un nebuloso velo. Una matassa di fili ingarbugliati, di cui avevo perso il bandolo.
Forse non lo volevo trovare. Sarebbe stato il mio cappio.
“Tum…tum…tum”.
Mi fermai e nella totale immobilità  mi tesi ad ascoltare quei colpi secchi, lenti; di legno sbattuto dal vento. Un sinistro presagio s’insinuò tra i miei pensieri. Labili.
Un indizio; che senti, che  vivi, quasi a poterne toccare i contorni, ma non capisci da dove arriva.
Un pensiero sfuggente, una nota stridula che non riesci ad identificare, quasi come se fossi stata imprigionata in quell’antica costruzione.
Condannata  a percorrere ininterrottamente le scale fatiscenti, come presenza ectoplasmica e senza identità.
La casa degli Angeli Dannati, ed io ero li, a  salirne i gradini di legno marcescente.
Da qualche tempo si era sparsa la voce che tra le mura di quel palazzo in stile liberty, succedesse qualcosa di terribile. Si narrava di urla e di corpi smembrati; di pozze di sangue coagulato e  di presenze demoniache. Salivo le scale sgangherate di quella vecchia magione, nelle narici l’odore di muffa mischiata all’odore di urina.
Quello era stato il regno di tossici, di puttane e di barboni senza fissa dimora.
Ora c’ero solo io. Io e le ombre che risalivano dagli inferi. Figure dannate e immortali che  mi seguivano avide, scrutandomi fin dentro l’anima.
I bisbigli indistinti di antiche nenie celtiche,  sembravano stonati requiem. L’eco della pioggia battente li confondeva.
Due figure al buio, uno davanti all’altra.
Un uomo. Una donna.
Distinguevo le loro voci, che risuonavano sulle pareti vuote.
E poi il silenzio cupo.
E poi vidi l’Abbraccio.
L’abbraccio di due amanti destinati all’inferno dell’immortalità.
L’amore passionale che non è fine a se stesso, ma solo il bisogno ferino di possedere brandelli d’umanità, d’innocenza persa  tra quelle mura luride, ricoperte di fregi, di simboli antichi e di porte tratteggiate con gesso candido.
Vidi il sangue colare dal polso squarciato di lei, illuminata sinistramente dal riverbero argenteo, che entrava cupamente dalle ampie finestre della sala.
Vidi lui. Vidi il modo con il quale stringeva la donna a se.
La cullava, come una bimba culla la sua bambola di pezza. Sembravano fusi in una sola entità.
Lei  morbidamente s’adagiava a lui, quasi a formare un’unica sagoma indistinta. Ma in tutto quel buio, pregno di dolore e morte, lui mi  fissava attraverso il vuoto. I suoi occhi di brace fendevano il nero che mi celava. Gli stessi occhi in cui mi ero immersa la sera prima, lo stesso sentore di mare che lo avvolgeva mentre facevamo l’amore.
Occhi dentro occhi per lunghi terribili istanti.
Compresi chi Io fossi. Compresi chi era Lui.
In una notte di maledetto postlunio, Lui mi aveva generata strappando le mie vestigia mortali.
Ora ergeva dinnanzi a me; il volto diafano, gli occhi verde citrino da cui stava scivolando una lacrima di muto dolore. Una lacrima rossastra; sangue.
Era l’uomo che mi ero illusa di aver posseduto e ucciso. Non lo avevo riconosciuto.
Io e Lui  stretti insieme, riflessi uno nell’altra, come  in uno specchio enorme.
D’improvviso udii lo schianto.
Vetrate infrangersi, gemiti d’anima dolente strappata al corpo.
Migliaia di piccole schegge di petali affilati, leggeri e lucidi come farfalle di ghiaccio.
Oltre la finestra frantumata l’abisso lo aveva accolto.
La pioggia battente di una notte dannata lo accompagnava.
L’eco roco di un “ti amo” risuonava nel silenzio immondo.
Rimanevo sola, in compagnia della notte nera. Forse troppo nera.
Una lettera stropicciata, giaceva sul pavimento.

“Solitude-By EmmaVittoria F. Dall’Armellina” ©Copyright2011

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Capitolo Terzo: “Adieu”

Solitude sous le ciel de Paris
“Da quanto tempo me ne stavo lì, seduto immobile su quella comoda poltrona?”.
Me lo domandai quando il mio sguardo vagò fuori, oltre le fini tende e la vetrata della finestra di quell’accogliente camera d’albergo.
Notai che la maggior parte delle luci, che prima illuminavano gli appartamenti dei grigi palazzi lì intorno, ora si erano spente. Rimasi ancora per un po’ immobile. Solo i miei occhi si mossero, alzandosi verso il cielo.
Un’immensa distesa nera ricoperta di nubi; un oscuro sudario d’ombra che pareva voler minacciare la città, come se da un momento all’altro avesse potuto inghiottirla, facendo sparire tutto nelle tenebre più profonde.
Doveva essere abbastanza tardi, a giudicare anche dai suoni e dai rumori, che giungevano ormai lontani ed ovattati; forse erano le undici o mezzanotte.
Sospirai: Durante il giorno non riuscìì a riposare e tutto quel buio e quel silenzio m’innervosivano tremendamente.
Mi guardai intorno.
L’unica luce che rischiarava l’ambiente proveniva da un lampadario, appeso sopra il letto. Nella stanza c’era però un camino; era spento ed io vi ero seduto davanti. M’innervosii ancora di più; qualcosa mi bloccava e m’impediva di accendere un fuoco in quel camino.
Capii subito che si era trattato del mio buon senso o di paura.
Molto più probabilmente, invece, era l’insieme di entrambe le cose, ma non vi feci più caso.
M’imposi di non pensare più a nulla per un momento; ero dannatamente troppo teso quella notte, forse per l’incontro che la tua lettera aveva sollecitato, dopo tanti anni, pur di farmi arrivare fino a Parigi.
Dopo un lungo sospiro, mi alzai dalla poltrona.
Non conosco il motivo ma, mentre lasciavo vagare lo sguardo stanco per la stanza, improvvisamente, tu piombasti nella mia testa squarciando i miei pensieri, come un raggio di sole penetra la fredda nebbia di una mattina d’inverno.
Il pensiero, quindi, scivolò leggero sulla poltrona dov’ero seduto qualche minuto prima.
Le ombre della stanza ora danzavano.
Era una danza vorticosa la loro, sfrenata ed incontrollabile. Per un attimo mi sembrò che mi stessero chiamando, pronunciando il mio nome, ma con la tua voce.
Chiusi ancora una volta gli occhi e portai le mani sulla testa, quasi a voler sopprimere tutti i pensieri. Mi voltai, dando così le spalle a quella maledetta finestra, che aveva risvegliato in me quella sete di te che tanto lottavo per controllare.
Andai a sciacquarmi il viso.
Rimasi appoggiato al lavandino per un po’ di minuti, il tempo necessario per far sì che i miei pensieri scivolassero via, insieme all’acqua. Riattraversai con gli occhi serrati e a grandi passi la camera, fino all’ingresso. Aprii la porta e subito la richiusi dietro di me, una volta uscito sul lungo corridoio.
M’illusi d’aver intrappolato nella stanza tutte le mie angosce in modo che, quella notte, non avessero più avuto l’opportunità di tormentarmi.
M’illusi, appunto…
Serrai di nuovo gli occhi e sospirai.
Trassi, nuovamente, la tua lettera ormai sgualcita e con occhi febbricitanti ne scorsi, per la millesima volta, le parole:
” … Vous êtes allé sur une froide journée de Décembre.
J’ai toujours aimé l’été. J’ai toujours détesté l’hiver.
En été, la mer est capable de prendre des milliers de couleurs
et mille nuances de couleurs,
les odeurs de la vie de la mer,
est sillonné …
Poi, dopo l’ultimo sospiro, chiusi gli occhi e volai oltre i pensieri e le idee.
Volai dove nessuno avrebbe più raccolto il mio pianto, la mia disperazione o il mio destino.
Volai oltre quella grande finestra che, un giorno, ci aveva visto uniti, innamorati e felici.
Volai oltre i piani che mi separavano dal suolo e i vetri infranti, in una esplosione dai mille diamanti come il mio cuore e una coppa di Louis Roederer.
Adieu.

Victor.

“Adieu-By Ninni Raimondi” ©Copyright2011

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Capitolo Secondo: “Il canto”

Sentivo più voci farsi largo tra le ombre, immobile; nell’aria che stagnava sulle gocce fredde del soffitto spiovente, gli occhi chiusi … e tanta sete.
La gola sussurrava appena un alito di vita e nel tremito intenso, l’unico segno del sangue che ancora scorreva, anche se lento … ormai prossimo alla sua ultima fermata.
Stavo così, persa nel luogo in cui mi avevi imprigionata … debole; come un lamento nella notte senza volti, vedevo le Tue belle mani … bianche come un tempo, farsi strada sulla lama del rasoio, a tratti eri illuminato da un vago sorriso, ma non era di gioia e nemmeno vittoria, era vuoto e risuonava di follia.
Stranamente lieta di poter condividere anche quell’oscuro tratto di sentiero, senza vento e senza luce … mi ripetevo che mi avresti ancora ricordata e che non sarei più apparsa solamente come un gioco nei labirinti dei Tuoi pensieri. Ero trascinata dalle voci, semplici suoni che dall’esterno colpivano i sensi assopiti e doloranti.
Pioveva a dirotto … mi è sempre piaciuto il suono della pioggia sui vetri infranti, sembra una danza di piccoli passi affrettati … un andirivieni concitato come in preparazione di una festa. Pioveva anche dai miei occhi, ma non ero io a volerlo, piuttosto guidate da una volontà forte ed indipendente dalla mia persona, le lacrime scendevano mischiandosi all’acqua piovana in una pozione che sapeva di mare annacquato. Sul collo i segni del tuo Potere, a tratti rossi e viola, ancora disseminati di piccole punture delicate, forellini aperti alla tua volontà felina.
Stavo giocando a non esserci più, a fare già finta di essermi allontanata dalla coscienza del dolore che mi lacerava lentamente. In alto aleggiava uno specchio, la cornice in decadenza, come il resto della stanza, rendeva il contorno del posto come protratto in una strana visione, non viva e non più reale di un incubo notturno.
Sentivo le voci potenti delle pareti vuote, c’erano disegni dappertutto, scarabocchi e simboli di fiamme ardenti ai lati delle porte … decine e decine di porte disseminate a ridosso dei muri, come bocche d’infiniti inferni aperti alla disperazione.
Fumi e vapori di corpi invisibili trasparivano dal pavimento e lievi riverberi di luci s’intravedevano tra le assi sconnesse … stavo ripercorrendo le vie della ragione ma non c’era uscita alla fine del respiro … non c’era ombra di dubbio sul riflesso nero che vedevo nella mente.
Ero così … sospesa fra gli estremi limiti di un luogo remoto da cui non sarei mai tornata integra … affannata e stanca, mi assopivo ad intervalli regolari come per rielaborare l’irrealtà di quell’istante, ma non era sonno e non era sogno …
… e nella marea scura che saliva dal profondo abisso, la Tua voce risuonava metallica e priva d’inflessione, Anima contro Anima, più soffermavo lo sguardo sul Tuo pallido profilo, più combattevo contro quel male che Ti divorava … e che stava distruggendo anche Me. Sorridevi fissando il vuoto del tempo trascorso e mi osservavi attraverso i riflessi del Nulla che ci circondava … solo Io e Te … Uniti da una catena infernale, questo il luogo in cui si stava decidendo il Nostro Comune Destino d’infelici Immortali.
Le mani giunte sotto la pioggia ed un’infelicità che solo noi potevamo considerare come l’Unione Oltre le Porte dell’Orrenda Prova.
Non c’era freddo ora e sulle ferite brillava un canto …
… L’Ultimo.

“Ultimo Canto-By Nighail ” ©Copyright2011

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Capitolo Primo: “3.33”

3.33  “Quando lo specchio riflette ciò che vogliamo vedere…”…
“Eppure manca ancora qualcosa. Manca il tempo, manca il corpo.
Manca la consapevolezza e suture per chiudere lesioni. Piccole polaroid di chi ha una vita da vivere e un’altra vissuta. Di chi nasce e rinasce con la costanza dell’acqua. Di chi guarda dritto in faccia la morte, col cuore pulito e le mani sporche di sangue. E manca chi sa soffrire in silenzio, per poi gridarlo alla luna; al vento, tra le onde di mare in tormento. Restano i sogni di chi ha masticato  dolore per tutto, e gli stereotipati sguardi di chi comprende solo ciò che vuol vedere”.
Questi i miei pensieri, mentre guardavo i led, che pigramente lampeggiavano da una sveglia, posta sopra al comodino. Refoli d’aria fredda entravano dalla porta a vetri spalancata nel buio. Mi alzai dal letto disfatto, e uscii a vedere quel nero che sembrava attendermi. Non mi preoccupai di coprire le mie nudità. Passai le dita tra i capelli, scuotendoli lentamente e mi lasciai avvolgere dall’aria fresca. Sorrisi nel buio, sentendomi appagata, languida e satura di piacere. Dal cielo, nero come la pece, fece capolino una distratta luna. Rossiccia, enormemente piena, e nel riverbero luminoso che entrava nella stanza, vidi il letto, le sagome dei mobili lussuosi e gli abiti sparsi sul pavimento. Ricordai.
Piccoli frammenti di nebulosi pensieri s’erano addensati nella mia mente. Un miscuglio di flashback mi avevano fatto perdere la consapevolezza di me stessa. Non mi riconoscevo più. Neanche quando, poche ore prima mi ero fermata davanti al grande specchio nella hall dell’albergo. Mi guardavo, dentro alla cornice dorata. I lunghi capelli, adagiati morbidamente sulle spalle nude, la pelle eburnea messa in evidenza dal vestito color carminio,  facevano da contorno all’estranea riflessa nello specchio. Gli occhi malinconici seppur truccati in modo sapiente, le labbra carnose dipinte di rosso e le mani tremanti intente a lisciare la gonna vaporosa sembravano il triste epilogo di una donna che si era persa tra le maglie del tempo. E poi la sala da pranzo, l’atmosfera rarefatta di lucori soffusi e di musica di piano, gli sguardi indagatori degli altri ospiti.
E poi Lui.
Ricordai l’uomo che avevo conosciuto la sera prima. Si era accostato a me, porgendomi un calice con dentro qualcosa.
“E’ un Louis Roederer, annata 1958, seduce lo sguardo di chi lo scruta nel bicchiere, il suo aspetto cristallino è intrigante, come lo siete voi, mia signora. Vi osservo da un po’. Siete seduta a questo tavolo, sola, e sembrate tremendamente infelice. Mi permetto di farvi un po’ di compagnia, almeno il brusio che sussurra di voi si acquieterà per un attimo”.
Disse lo sconosciuto in abito scuro. Gli feci cenno di sedersi, lanciando uno sguardo alla sala nell’ora di cena. Si, in molti mi guardavano sottecchi, e sicuramente lanciavano qualche commento rivolto alla mia persona, ma poco mi importava. Lui mi sussurrò il suo nome, porgendomi la mano. Gli sorrisi e mi chiese se volevo cenare con lui. Appoggiò i calici e la bottiglia di champagne sul tavolo e  iniziò a parlare di se, del suo lavoro, di come era bella  Parigi a maggio. Avevo fame e accettai l’invito. Lui ordinò anche per me. Era galante, affabile, molto bello e sicuro di se. Mi piaceva la sua compagnia, ma allo scoccare della mezzanotte gli dissi che dovevo ritirarmi nella mia stanza. Sorrise dispiaciuto.
“Siete come Cenerentola, che deve scomparire alla mezzanotte” mi disse, con un tono allegro, ma con una punta d’ironia. “Se volete accompagnarmi…”gli dissi sottovoce, alzandomi lentamente. Non ci pensò un attimo. Fece un cenno al cameriere e dopo pochi istanti lo sentii raggiungermi, passando il braccio attorno alla mia vita.
“Siete bellissima, e i vostri capelli mi ricordano sottili strisce di sangue, che scivolano sulla neve”. Non risposi mentre chiamavo l’ascensore. Si strinse a me, sfiorando con un bacio le mie spalle nude. Ci sarebbe stato un epilogo a quella sera. Lo sapevo io e lo sapeva lui.
Entrammo in ascensore, e mi baciò. Un bacio dolce, un bacio da amanti.
Arrivati alla mia stanza, lo feci entrare. Avevo fame. Iniziammo a fare l’amore.
Perdemmo la cognizione del tempo, e per quello che stava succedendo. Eravamo come due bestie in cerca di amore. Lo sentii nell’apice del piacere, fondersi a me. Lo sentii chiamare forte il mio nome.
Un urlo roco, simile a un rantolo.
In quel letto disfatto giaceva l’uomo di cui non ricordavo il nome.
Mi avvicinai a quel corpo dormiente; era a pancia in giù. Ombre scure, sulle lenzuola candide lo contornavano. Scostai le lenzuola, e alla luce della luna, vidi la perfezione del suo corpo nudo. Le gambe abbronzate, i glutei sodi, il busto ben tornito e le braccia tese e muscolose. Un braccio era scivolato dal letto, presi il polso e vidi lo squarcio. Ricordai.
Lui mi osservava con occhi smeraldini e vitrei. Il suo sorriso sembrava un ghigno grottesco. Lo avevo posseduto, come lui aveva fatto con me. Ma io gli avevo preso molto di più. La mia fame si era calmata e lui era solo un’altra tessera di un puzzle distorto.Mi leccai le dita, sentendo il gusto del suo sangue dolciastro, misto al gusto salino del suo sperma. E sorrisi nuovamente. Non si era accorto che durante tutta la cena non avevo toccato cibo, né assaggiato il suo costosissimo champagne. Gli avevo sussurrato “Costanza”. Sicuramente in quel momento avrà pensato fosse il mio nome. Poco mi importava. Avevo giocato al suo gioco. Vincendo. E poi il sesso, il suo membro che si faceva largo dentro il mio ventre, possedendomi.
E poi Io.
Lo avevo semplicemente ucciso, suggendo il suo sangue. Non si era reso conto che nell’amplesso, l’eros si fondeva con tanathos, e che lui stava scivolando dalla vita alla morte in pochi attimi. Sentivo il suo sangue scorrermi nelle vene.
Gli strappai la collanina che aveva al collo. E guardai il simbolo che il medaglione raffigurava. Una stupida croce egizia, la croce della vita. La presi e la infilai distrattamente nella pochette.
E come arrivai, lieve come vento, con il favore delle tenebre scomparii.

“3.33” ©EmmaVittoria F. Dall’Armellina 2011

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Immagine: Google – EVFDGraphics

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ANDREA GRUCCIA

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